lunes, 22 de junio de 2009

Del commercio di perline colorate

Insomma quel che volevo risponderti, Tanoka, è che il mio giramento di balle è pre-consumista. Cioè, non si parla del tipo che vuole cambiare l'ipod perché si è stufato del suo che è giallo e lo vuole rosso, ma del ragazzetto che vorrebbe comprarsi il primo e unico e lo paga il doppio di quel che vale - il che in termini di potere d'acquisto fa sette-otto volte di più rispetto al suo coetaneo di altrove. La sensazione di mano altrui che ti fruga le tasche non è piacevole per nessuno.

Per noi poi, che siamo o meno consumisti ossessivi, è comunque una tragedia cosmica. Un po' perché siamo abituati molto bene (potere d'acquisto, qualche anno fa anche qualità intrinseca dei prodotti, adesso mi pare meno), un po' per il set di gusti (e ideologia) merceologici che abbiamo ciucciato dal biberon, anche se non era ancora ergonomico. Dev'essere frustrante per tutti adattarsi ad un livello di vita da secondo mondo, ma qualcosa mi fa sospettare che un tedesco ci riesca con meno paturnie di noi. Perché da coatti che siamo, ci compriamo il giubbottino tecnico da spedizione antartica per fare casa-lavoro in autobus, la padella professionale multistrato per cuocere i quattro salti, gli orologi da astronauta palombaro...

Quindi, dal gruppone dei mille-millecinque al mese (parlo per me), convinti di avere accesso al minimo indispensabile, atterriamo qua e ci ritroviamo con meno soldi (relativamente) ma in compenso con esigenze ed abitudini che ci piazzano in un segmento più alto di quel che ci si possa permettere. Esempio che ripeto come un nonno rigato, la camicia da 40 euro per-andare-a-lavorare: per trovarne una equivalente qua, bisogna andare al negozio dei principi del foro, e costa 40x5=200 (a volte anche un po' di più). Il geom. del catasto chiaramente compra altrove. Non solo, ma per l'effetto perlina questi negozi picchiano ancora più duro (quest'indio cià i soldi, orsú leviamoglieli).

Fra Coronel Pringles e Tres Arroyos, sulla RP85

Mercato piccolo, poca concorrenza? Tasse alte all'importazione? Meno economie di scala? Consumatori meno esigenti? Boh, o forse tutto questo insieme. Ma pare che questo sbilanciamento in favore del venditore non sia solo un problema del dettaglio. Stavo curiosando sulla qualità delle farine e ho trovato questa paginetta: la federazione dei panificatori sta "lavorando insieme" (eufemismo?) a quella dei molini per riorganizzare la tipificazione delle farine per uso industriale. Insomma, questi comprano i sacchi e sui sacchi non c'è la tabellina delle caratteristiche tecnologiche, o se c'è non è detto che corrisponda al contenuto reale. I molini si giustificano dicendo che non possono far miracoli con il grano che trovano in giro. Mentre ormai la specializzazione da noi (da voi) arriva al consumatore da mezzo chilo (leggo blog di cucina su cui si sperimenta con mix di farine per fare le pizzette in casa), sembra che qui, almeno a livello artigianale, si lavori al buio.

Ad ogni modo, si fa di necessità virtù: uno evita i confronti dolorosi, sposta la soglia del suo minimo indispensabile, si accorge che in fondo non è poi la questione di vita o morte che sembrava, che non esiste un diritto all'olio extravergine spremuto a freddo da olive raccolte ad inizio invaiatura e da non più di 24 ore, si ricorda che nessuna delle nostre nonne è morta per assenza di spremiaglio di Venturini, e si gode la sensazione che nessun acquisto sia ovvio (mentre là da dove vengo la sensazione è che ogni acquisto sia metà-del-tuo-dovere), anzi l'ovvietà è non comprare mai niente nella prima visita al negozio e farsi tirare giù 15 modelli di qualsiasi cosa per comprarne rigorosamente uno solo; e poi, a farlo durare. Non è detto che ci vada poi tanto peggio.

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